L'articolo Giancane – Strappati Lungo i Bordi – Accordi è presente su Hanahaki.
]]>La sigla è stata realizzata da Giancane, noto cantautore italiano che aveva già collaborato con il fumettista romano in diverse occasioni, come nel caso del video del brano Ipocondria (2018) e degli short animati di Rebibbia Quarantine, (2020). La versione integrale della canzone è contenuta in questo video YouTube; sullo stesso canale è inoltre disponibile anche la versione Karaoke.
Oltre alla sigla di apertura il cantautore ha realizzato anche gran parte della colonna sonora della serie, raccolti nell’album Strappati Lungo i Bordi disponibile su tutte le piattaforme digitali (Woodworm, distr. Universal Music) e, a partire da venerdì 17 dicembre, anche in formato fisico, in una speciale edizione limitata in vinile.
Ci auguriamo che gli accordi siano di vostro gradimento: se pensate che ci siano errori fatecelo sapere nei commenti in fondo alla pagina, saremo lieti di correggerli!
Sara che
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]]>L'articolo Chihayafuru 4: sembra che la Madhouse ci stia dando degli indizi sulla prossima stagione dell’anime è presente su Hanahaki.
]]>In realtà il primo episodio di Chihayafuru andò sì in onda ad Ottobre del 2011 ma non esattamente il giorno 29, bensì il 4 Ottobre. Sembra quindi che Madhouse sia arrivata un po’ in ritardo con i suoi auguri all’anime. Non è importante… oppure si?
Il fatto è che, 25 giorni dopo la data corretta, Madhouse ha deciso di pubblicare un post su twitter per parlare di Chihayafuru e mostrare ai suoi follower una nuova illustrazione originale di Kunihiko Hamada, che è il character designer e direttore dell’animazione di questa serie.
Ecco qui l’illustrazione diffusa su twitter:
La mangaka Yuki Suetsugu (autrice di Chihayafuru ) immediatamente ha ritwittato il post e l’immagine di Madhouse aggiungendo il proprio commento:
“Vi sono grata per l’illustrazione del decimo anniversario di Chihayafuru! Voglio vedere Chihaya muoversi e splendere di nuovo tramite il design di Kunihiko Hamada“.
A giudicare dalle parole della Suetsugu, il progetto animato Chihayafuru sembrerebbe dunque vivo e vegeto. E non è tutto.
Alcuni fan hanno notato un interessante dettaglio nell’illustrazione di Hamada: il titolo, scritto a mano da Hamada stesso, è “Chihayafuru 4”
Può trattarsi di una semplice coincidenza oppure potrebbe essere un altro indizio che lo staff di Chihayafuru ci ha voluto dare per iniziare a tenere viva l’attenzione su un prossimo annuncio ufficiale della stagione 4.
In aggiunta, dal 1 Novembre 2021, le vecchie stagioni di Chihayafuru sono entrate a far parte del catalogo Netflix in molti paesi del mondo (non in Italia però) e anche questo sembra un segno di salute del franchise.
L’annuncio della 4a stagione potrebbe non essere così lontano.
Ciò che non sappiamo, invece, è se Chihayafuru stagione 4 è destinata ad essere la stagione finale o meno.
Il manga è ancora in corso ma è ufficialmente prossimo alla conclusione. Chiudere il manga e accompagnarlo con la stagione finale dell’anime sarebbe perfetto, eppure ci sono ancora diversi archi narrativi da adattare in versione animata, così tanti che molti credono fortemente che neppure una serie da 25 episodi sarebbe sufficiente a coprire il materiale del manga.
La mia idea personale è che Chihayafuru season 4 si farà, che non dovremo aspettare anni, perchè si vorrà sfruttare l’onda di entusiasmo che accompagnerà la conclusione del manga, e che, proprio per quest’ultima ragione, la prossima stagione animata, in un modo o nell’altro, porterà a conclusione l’intera storia.
Voi cosa ne pensate? Fatecelo sapere nei commenti.
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]]>L'articolo “Holly e Benji” raccontato dai suoi storici doppiatori Fabrizio Vidale e Giorgio Borghetti è presente su Hanahaki.
]]>L’adattamento e la lavorazione italiana di “Holly e Benji”, iniziò alla fine del 1984. All’epoca -raccontano i due attori- nel doppiaggio si era soliti lavorare con calma e largo anticipo, a differenza di quanto avviene oggi con serie tv che devono essere doppiate quasi simultaneamente alla messa in onda in lingua originale.
Vidale e Borghetti, a quel tempo, avevano rispettivamente 14 e 13 anni ed erano quasi perfettamente coetanei delle loro controparti animate. Non solo i due protagonisti, ma la quasi totalità dei loro colleghi, chiamati a dare voce ai numerosissimi comprimari della storia, erano ragazzi giovanissimi.
Ne derivò un’esperienza di lavoro più unica che rara che vedeva quotidianamente riuniti in sala di registrazione, decine di ragazzini vivaci e casinisti che si alternavano al microfono e si divertivano a tirarsi qualche scherzo senza farsi vedere dai responsabili.
Il primo arco narrativo di “Holly e Benji” è ambientato durante il “torneo delle Elementari”. In Giappone la scuola primaria dura fino ai 12 anni ed è questa -verosimilmente- l’età di tutti i protagonisti (eccezion fatta per Danny Mellow, che viene espressamente indicato come più giovane).
Il secondo arco narrativo della serie storica, il “torneo delle Medie”, è invece ambientato quando Holly e gli altri frequentano la 3° media (che, in Giappone, significa: 15 anni)
Nel 1984/85, periodo di doppiaggio di “Holly e Benji due fuoriclasse”, Fabrizio Vidale (Holly Hutton) aveva 14 anni; Giorgio Borghetti (Benji Price) ne aveva 13 ; Massimiliano Manfredi (Bruce Harper) 15 ; Rossella Acerbo (Tom Becker) 11 ; Antonella Baldini (Patty) 18 ; Fabrizio Manfredi (Philip Callaghan) e Christian Fassetta (Julian Ross) ne avevano 17. Vittorio Guerrieri (Mark Lenders), che era il più grande, aveva 26 anni.
Quando, nel 2003/2004 venne prodotto “Holly e Benji forever” (2° remake della serie classica), vennero richiamati molti dei doppiatori originali che però, nel frattempo, non erano più teenager ma avevano superato i 30 anni. Vidale e Borghetti raccontano che dovettero fare una gran fatica per adattare la loro voce, ormai adulta, alla giovane età dei protagonisti. In particolare, racconta Fabrizio Vidale, si fecero tutti un sacco di risate nel sentire Massimiliano Manfredi, adulto ed altissimo com’era, che tornava interpretare la vocetta squillante del dodicenne Bruce Harper.
Piera Vidale, direttrice del doppiaggio di “Holly e Benji”, ebbe a che fare, per un lungo periodo di tempo, con la gestione quotidiana di una media di 10/12 teenager per sessione, interpreti di intere “squadre di calcio”, e ci volle tutta la sua pazienza per riuscire a tenere a freno la loro vivacità e farli lavorare tutti insieme contemporaneamente.
“Non potete capire cosa succedeva al leggio” – racconta Vittorio Guerrieri (Mark Lenders) – “tra botte, spinte, schiaffi del soldato…Piera Vidale era una santa”.
Anche se nella vita Piera Vidale era la madre di Fabrizio, in “Holly e Benji” non interpretava la madre di Holly, bensì la Signorina Daisy, la talent scout di Mark Lenders.
Giorgio Borghetti è un grande amante del calcio anche nella vita. Ha militato per anni nella squadra “ItalianAttori” e, proprio come il suo personaggio Benji Price, gioca in porta.
La sua vocazione da portiere, però, non è merito di Benji, bensì di Felice Pulici, portiere della Lazio campione d’Italia nel ’73-’74, che Borghetti ammirava e conosceva personalmente poiché suo vicino di casa.
“Io gioco in porta ma quei tuffi, quei voli non riesco a farli” – scherza Borghetti – “In “Holly e Benji” i portieri si tuffano, volano, sbattono… io, ogni volta che mi tuffo, casco e mi faccio pure male”.
Sergio Matteucci, scomparso nel 2020, è ricordato, tra le altre cose, per essere stato il mitico telecronista delle partite di “Holly e Benji”.
Matteucci nasceva come speaker radiofonico e giornalista radiotelevisivo, prestato solo in seguito al doppiaggio delle serie animate (oltre che in “Holly e Benji”, è stato il cronista di “Mila e Shiro, due cuori nella pallavolo” ; il lettore del telegiornale in “Lamù, la ragazza dello spazio” e la voce narrante in “Lady Oscar”).
Lo spazio dato al ruolo del telecronista durante le partite della versione italiana di “Holly e Benji” è una peculiarità della serie italiana. Nell’edizione nostrana, infatti, il telecronista Matteucci racconta agli spettatori, passo passo, le azioni di gioco mentre nella versione giapponese non c’è un’unica cronaca fuoricampo ma la narrazione delle partite è affidata ai pensieri interiori dei vari protagonisti presenti in campo e sugli spalti.
Vidale e Borghetti raccontano che durante la lavorazione di “Holly e Benji” non hanno mai incontrato in studio Sergio Matteucci il quale ha sempre avuto una propria agenda di lavoro ed un proprio copione separati, poiché il telecronista non aveva necessità di interagire con alcun personaggio dell’anime.
“Però” – ricorda Giorgio Borghetti – “mi ricordo che da bambino vedevo i suoi copioni, che erano immensi, e pensavo: povero lui che deve dire tutte queste battute!”
Vittorio Guerrieri (Mark Lenders) che aveva qualche anno in più dei suoi “compagni di squadra” ed una solida esperienza da attore, è descritto dai colleghi dell’epoca come una persona estremamente ironica e brillante.
“Era un ‘coatto’ proprio come Mark Lenders” – racconta scherzosamente Giorgio Borghetti – “lo soprannominavamo Er Murena”.
Guerrieri arrivava ai turni di doppiaggio con la moto in impennata e si divertiva ad insegnare agli altri ragazzini come si faceva a guidare il motorino su una ruota sola.
Oggi ha ancora un fisico atletico e i capelli lunghi e gioca ancora a pallone “e faccio il tiro della tigre… sbiadita” – scherza.
Rossella Acerbo, la più giovane del cast, era l’unica ragazzina chiamata a doppiare un giocatore maschio: Tom Becker.
Come mai? Forse perché Rossella, appena undicenne, aveva una voce dalle tonalità neutre; forse perché il personaggio di Tom è pacato e gentile o “Forse perché erano letteralmente finiti i doppiatori maschi di quella fascia d’età” – dice Fabrizio Vidale . Infatti un’intera generazione di giovani attori romani fu cooptata, all’epoca, per il doppiaggio di questo anime corale.
In ogni intervista che verta su “Holly e Benji”, Vidale e Borghetti ricordano con affetto e ringraziano Fernando Piacentini, titolare dello studio di doppiaggio ETS, descritto come una persona molto gentile e generosa.
“Fin dalla 1° serie di Holly e Benji lui è stato eccezionale” – racconta Fabrizio Vidale – “Tutti i pomeriggi in cui noi andavamo a lavorare, lui ci faceva trovare la merenda. Verso le 17.00 mandava una persona in pizzeria, ordinava 3 o 4 teglie di pizza e noi facevamo merenda con pizza e bibite”.
Quando iniziava a fare caldo, invece della pizza arrivavano i gelati.
“Si stava fermi anche tre quarti d’ora. Con le tempistiche di oggi, sarebbe impensabile” – aggiunge Borghetti.
“Fernando Piacentini è stato unico. Io e Giorgio abbiamo lavorato tanto fin da bambini. Per carità, tutti, con i bambini, adottavano pianificazioni più leggere da rispettare. Però questa gentilezza non l’abbiamo mai più incontrata”
Fabrizio Mazzotta (che interpretava Ted Carter) e che ha dedicato moltissimo della propria carriera di doppiatore all’animazione giapponese, è ricordato dai suoi colleghi dell’epoca anche per essere sempre stato un bravissimo disegnatore e fumettista.
Fin dai tempi di “Holly e Benji”, ogni tanto si divertiva a buttare giù uno schizzo in pochi secondi e lasciava a bocca aperta i suoi compagni.
Come per i protagonisti di “Holly e Benji”, il calcio era per Vidale, Borghetti e per gli altri giovani colleghi, una grande passione.
Appena arrivati agli studi, avevano l’abitudine di costruire un pallone di fortuna con i pezzi dei copioni già usati e con lo scotch e improvvisavano grandi partite nel cortile o nei corridoi per poi arrivare al leggio sudati e con l’affanno.
La squadra del cuore di Fabrizio Vidale è la Roma mentre quella di Giorgio Borghetti è la Lazio.
Nel 1990, durante i Mondiali di Calcio di Italia ‘90, Fabrizio Vidale recitò in “Ultrà” di Ricky Tognazzi, interpretando il tragico ruolo del tifoso romanista “Smilzo”, personaggio chiave di tutta la storia.
Fonti:
contenuti speciali dvd “Holly e Benji Forever” vol. 13 Special Edition – Stormovie / Digital studio production srl (2004)
Open Day di Radio Cusano Campus puntata del 07/11/2014
Voci Animate speciale Holly & Benji. Voci in diretta puntata del 08/04/2021
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]]>Ho iniziato a 6 mesi e neanche sapevo stare seduto da solo, mi raccontano che sul set c’erano mia madre e mia nonna che mi tenevano su davanti all’obiettivo. Presi una pausa dai 18 mesi ai 3 anni e poi ripresi a lavorare a Milano fino ai 12 anni, soprattutto nella Moda e nella Pubblicità.
A 4 anni hai preso parte al tuo primo sceneggiato Rai: “Il calzolaio di Vigevano”
Si, quella fu la prima esperienza di recitazione vera e propria.
Intorno ai 9 anni hai condotto “Il Miniclub” una trasmissione radiofonica per bambini su Radio MonteStella, una storica emittente milanese
Si, era una trasmissione pensata per avvicinare i bambini alla Radio. La “padrona di casa” era mia sorella Susanna e io la aiutavo nella conduzione. Insieme, leggevamo le letterine che ci scrivevano i bambini, le commentavamo e davamo loro consigli. Avevamo ospiti in studio, raccontavamo barzellette… Andavamo in onda tutti i giorni e avevamo molta libertà sulla scaletta, eravamo noi a scegliere, di volta in volta, gli argomenti di cui parlare in trasmissione.
Hai anche studiato all’Accademia del Teatro alla Scala.
Avevo 11 anni. All’interno dell’Accademia, la mattina si studiavano le normali materie di scuola e il pomeriggio si faceva lezione di danza classica. Non avevo una vera e propria passione per la danza ma mia madre ci teneva a darmi una formazione attoriale “all’americana”, cioè dandomi la possibilità di imparare ad essere un artista completo, pertanto anche saper danzare era importante. Ho superato le selezioni e sono entrato nella Scuola, ma ci sono rimasto solo un anno perché poi ci siamo trasferiti a Roma.
A 12 anni ti sei trasferito a Roma perché sia tu che tua sorella Susanna eravate via via più impegnati con la Recitazione. E per fare Cinema e Teatro era meglio stare a Roma…
Prima si è trasferita mia sorella, che all’epoca aveva 17 anni. Poiché a Milano si faceva soprattutto Moda e Pubblicità, ha voluto ampliare le proprie possibilità nel campo artistico. Di lì a un anno l’abbiamo raggiunta a Roma anche io e mia madre.
Come hai vissuto questo cambiamento?
Ero già in un’età in cui cominciavo ad avere delle amicizie che mi è dispiaciuto lasciare. Quando sono arrivato a Roma dovevo fare la 2° media quindi mi sono dovuto unire ad una classe già formata, che già si conosceva da un anno. Ero l’ultimo arrivato e all’inizio ho fatto un po’ di fatica ad ambientarmi. Aggiungici poi che, essendo milanese, avevo anche un modo diverso di parlare rispetto ai miei compagni romani e all’inizio venivo trattato un po’ come un corpo estraneo.
Ma poi, alla fine, a Roma ho trascorso tutta la mia giovinezza e i miei più cari amici li ho conosciuti lì.
Tra i 10 e i 24 anni hai preso parte a molte altre Fiction Rai, tv movie e anche film per il Cinema. Per citarne qualcuno: “Quasi davvero” (1978) con Carla Gravina ; “Cenere per le sorelle Flynn” (1982) tratto da un racconto di Joyce ; “Inverno al mare” (1982) con Orso Maria Guerrini ; “La stagione delle piogge” (1984) con Christopher Connelly, Senta Berger e Laura Morante. Ti piaceva stare sul set?
Si, alla fine mi sembrava una cosa molto naturale
C’è un lavoro tra questi che ricordi con particolare affetto o di cui sei più orgoglioso?
Sono felice di aver lavorato sempre con attori di grande prestigio.
Mi ricordo particolarmente Carla Gravina come una persona eccezionale, sia artisticamente che umanamente. Sul set sapeva mettermi molto a mio agio, senza mai atteggiarsi a “diva”.
Dal punto di vista personale, invece, sono più legato ad uno degli ultimi lavori da attore che ho fatto: “Una storia importante” (1987), che fu un film per il Cinema. Me lo ricordo con grande piacere perché il mio coprotagonista era anche il mio migliore amico.
Nel frattempo, e ancora da giovanissimo, hai lavorato a Teatro: “Il lebbroso”, premiato al Festival dei Due Mondi di Spoleto, e “Una famiglia”, con Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice.
Hai anche preso parte al G.B. Show, con Gino Bramieri, al teatro Sistina, nel 1983
Il “G.B. Show” veniva registrato al teatro Sistina, alla presenza del pubblico, e poi trasmesso in tv. Ovviamente si trattava di uno spettacolo comico. E’ stato molto divertente recitare con Bramieri. Lì non si improvvisava niente, c’era per tutti un preciso copione. Mi ricordo Bramieri come una persona molto alla mano e gentile.
In quegli stessi anni, soprattutto tra il 1980 e il 1991, hai fatto tantissimo doppiaggio. Hai dato la voce a molte serie d’animazione giapponese che in quegli anni hanno avuto un vero boom nel nostro Paese. Ti piaceva farlo?
Si certo, il doppiaggio per me è stato sempre il principale impegno. Di base lo consideravo il mio lavoro quotidiano e cercavo di farlo al meglio.
Ma se mi chiedi se, dopo aver doppiato dei cartoni animati, poi li riguardassi a casa, la risposta è no, non avevo molto tempo per farlo.
A 14 anni hai interpretato Enrico Bottini, il protagonista di “Cuore”, l’anime giapponese che era tratto dal romanzo di De Amicis.
Questa la considero un’esperienza di valore, perché la serie era tratta da un importante romanzo italiano. Ancora oggi un sacco di persone si ricordano di me come Enrico Bottini
A 17 anni hai fatto parte del cast dei doppiatori di “Holly e Benji” che è stato da subito (ed è ancora) un cult assoluto per tutte le generazioni di bambini che lo hanno visto. Cosa ricordi di quell’esperienza di doppiaggio?
Lo sapevo che mi avresti chiesto di “Holly e Benji”.
Sicuramente è stata una delle esperienze lavorative più piacevoli che ho fatto perché eravamo tanti ragazzi più o meno della stessa età che si alternavano al microfono. Ci conoscevamo tutti, era una generazione di attori con cui sono cresciuto insieme nelle sale di doppiaggio.
Devi sapere che doppiare non sempre è divertente perché si passano molte ore al chiuso, al buio, spesso da soli davanti al leggio… può essere un po’ alienante. Ma doppiare “Holly e Benji” è stato molto bello perché andare a lavorare significava stare con gli amici. Cominciavamo ad avere un’età in cui c’era molta goliardia, ci si divertiva a prendersi in giro, ogni tanto qualcuno esagerava con le battute irritanti e qualcun altro si arrabbiava, ma faceva parte del gioco e poi finiva lì.
Eravamo tutti piuttosto bravi, quindi riuscivamo sempre a rispettare le pianificazioni in meno del tempo previsto, questo ci consentiva di poterci prendere anche delle pause lunghe per fare merenda insieme e scambiare due chiacchiere tra noi.
Un altro doppiaggio divertentissimo per me fu quello di Huckleberry Finn in “Tom Story- Le avventure di Tom Sawyer” , in cui lavoravo con Massimiliano Manfredi che interpretava Tom Sawyer. Nelle pause di lavoro, giocavamo a calcio nei lunghi corridoi degli Studi della vecchia Fono Roma con una palla improvvisata e facevamo arrabbiare il custode che ci gridava in romanaccio.
In Holly e Benji interpretavi Julian Ross, che è un personaggio emblematico della saga ed è protagonista di un arco narrativo molto drammatico di cui proprio tutti si ricordano. Pensa che anche ZeroCalcare, che oggi è il fumettista più popolare e impegnato d’Italia, ha usato Julian Ross come personaggio ricorrente nelle sue storie, è uno dei suoi spiriti-guida.
Julian Ross credo sia stato più importante per i telespettatori che per me come doppiatore. Sinceramente all’epoca non avevo la percezione di interpretare un personaggio speciale.
Essendo così giovane e così impegnato nei tuoi vari lavori, riuscivi a conciliare la scuola, la recitazione, lo studio e il tempo libero?
Alla fine sì, ci riuscivo. La mattina andavo a scuola e il pomeriggio lavoravo. Ero bravo nello studio e riuscivo a concentrarmi per fare i compiti velocemente anche nelle pause tra un turno e l’altro. Come ti dicevo, il lavoro di doppiatore faceva parte della mia normalità. Era parte della mia giornata. Non la vivevo come una privazione ma nemmeno come una cosa tanto speciale.
Ho frequentato il biennio al Liceo Scientifico ma detestavo il Latino, perciò ho voluto cambiare il mio corso di studi e alla fine mi sono diplomato in Informatica, che allora non era una materia così ambita come oggi ma a me piaceva molto.
Ti sentivi popolare in Italia? Hai mai ricevuto lettere dai fan?
A suo tempo no, anche perché all’epoca era quasi impossibile rintracciare un attore o un doppiatore, non esistendo i social network. Io poi, fuori dall’ambito lavorativo, non andavo a raccontare in giro quello che facevo ai miei coetanei. Ricevo molti più messaggi ora tramite facebook. Mi sorprende vedere di quante persone si ricordino di Enrico Bottini e Julian Ross.
Tutte le cose di cui abbiamo parlato fino ad ora, tu le hai fatte fondamentalmente da ragazzo. Poi, arrivato all’età in cui tanti iniziano appena a cimentarsi con la Recitazione, tu hai deciso di abbandonarla e fare tutt’altro.
Nel 1991, a 24 anni, sei andato a studiare in America e sei passato dallo Spettacolo alla Finanza.
Hai conseguito alcune Lauree, Master e Dottorati in diverse Università americane in Accounting, in Legge e in Business Administration. Quando hai preso la tua prima laurea alla University of Illinois sei stato Valedictorian (*ovvero lo studente più meritevole del corso, quello che ha l’onore di pronunciare il discorso di commiato a nome di tutta la facoltà) e questo nonostante l’Inglese non sia la tua lingua madre.
Sì, è stato un grande onore. Pensa che quando andavo a scuola nemmeno mi piaceva l’inglese e non capivo a cosa mai dovesse servirmi studiarlo.
Come hai capito che non volevi fare l’attore per tutta la vita?
Oggi in Italia si recita quasi esclusivamente in presa diretta e un attore deve essere per forza di cose molto completo: deve avere la faccia giusta e deve sapere anche recitare veramente.
Anni fa, invece, non funzionava così. Un attore, dopo le riprese, doveva per forza essere doppiato. Se era un bravo attore, si doppiava da solo, altrimenti, se non era capace, si chiamava un professionista per prestargli la voce e aggiustare la sua recitazione.
Mi è capitato più di una volta di essere chiamato a doppiare chi aveva una bella faccia sullo schermo ma oggettivamente non sapeva recitare e questa cosa ha cominciato a starmi stretta. Non mi sembrava giusto ed era frustrante. Non capivo perchè non si potesse scritturare direttamente un attore. Alla fine ho perso entusiasmo per questo ambiente. Poi, nel frattempo, ho conosciuto una ragazza americana e, quando lei è tornata negli Stati Uniti, ho deciso di seguirla.
Oggi sei Managing Director della tua società che si occupa di tax planning, financial management, e business consulting. Insomma, hai un curriculum fatto apposta per far venire i complessi di inferiorità.
Te l’ho detto che ero bravo nello studio. Infondo a me piace molto imparare cose nuove e penso che nella vita si debba imparare il più possibile. Se vuoi saperlo, sono anche arbitro internazionale di pallavolo e pilota di Cessna, e ho diversi brevetti da sommozzatore.
Hai figli?
Si, 3 figli.
Loro parlano italiano?
No, anche se un paio di loro lo capiscono.
Hanno mai visto qualcosa di tuo?
No, mi conoscono per quello che sono oggi. Sanno del mio passato, ogni tanto salta fuori una foto e gli racconto qualcosa, ma fondamentalmente non ne parliamo granchè.
Essere ancora cercato o contattato da chi ti ricorda come attore e doppiatore ti mette a disagio o ti fa piacere?
Io sono molto rispettoso del Passato e quegli anni in Italia corrispondono ad un segmento di vita importante per me. Essere ricordato o cercato per quello che ho fatto da ragazzo mi fa piacere ma non è la cosa per cui vivo. E’ una fase che è stata parte di me, come altre.
Quanto ancora segui ciò che succede in Italia?
Al livello politico non molto, ho imparato che gli esseri umani alla fine sono sempre uguali dappertutto, indipendentemente dalle loro bandiere e dalle etichette che si danno.
Al livello cinematografico, invece, seguo abbastanza, soprattutto quando sono da solo o viaggio per arbitrare un torneo di pallavolo, guardo con piacere film italiani.
La cosa che colpisce più di te è che hai fatto tantissime cose e tutte benissimo, tutte ad alto livello. Qual è il segreto per riuscirci? E’ questione di talento? O di duro lavoro?
Credo che stia tutto nella motivazione e nella determinazione che hai nel voler raggiungere un obiettivo che ti interessa. Se ti dai una meta e poi ti metti a lavorare con serietà, è solo questione di tempo e, prima o poi, puoi raggiungere qualsiasi obiettivo.
L'articolo Intervista a Christian Fassetta è presente su Hanahaki.
]]>L'articolo Mashiro no Oto – Testo e Accordi per Chitarra è presente su Hanahaki.
]]>Le due sigle di apertura “Blizzard” e “Ginsekai” (Silver World) sono entrambe eseguite dalla band giapponese Burnout Syndromes, che in passato avevamo avuto modo di apprezzare per altre sigle anime tra cui Haikyu!!, Dr. Stone e Gintama.
Masshi
Hakushi
Massa
Furu
(Kuga tachi no yakedo o oitaru toganin ya
Tsubasa ienai itsu mahoroba
Kairoi no koi madowashite chi o taezu
Waga koromode ni yuki wa oritsutsu)
Tae
Sono
Kama
(utsuronaru sekka no omoi ni moyuru hodo
So koso makoto no koi toiu mono
Kakaru yoru kokoro ugarite aogi miru
Hi yori mabushiki yuki zo orikeru)
Hakushi
Massa
Furu
Kogo
L'articolo Mashiro no Oto – Testo e Accordi per Chitarra è presente su Hanahaki.
]]>L'articolo Cucire un papillon per bambini (o adulti) è presente su Hanahaki.
]]>Con poco impegno potrete personalizzare questo piccolo accessorio in grado di conferire eleganza e personalità all’abbigliamento di un bambino (o, perchè no, anche di un adulto) per un’occasione speciale: una cerimonia, una cena importante, una festa, una recita…
Qualche tempo fa una mia cara amica ha annunciato il suo matrimonio e ha chiesto al mio figlio più piccolo di farle da paggetto. Lui e gli altri paggetti avrebbero dovuto indossare uno stesso dress code e precedere l’ingresso della sposa lanciando petali di fiori. Poichè alcuni dei paggetti erano ancora in età da pannolino, la “divisa” doveva essere necessariamente semplice e comoda e non farli sentire costretti e a disagio. In più il matrimonio sarebbe avvenuto in piena estate e ci aspettavamo temperature bollenti.
Si decise così che il dress-code dei paggetti sarebbe stato: camicetta bianca a maniche corte, pantaloni di cotone color coloniale e un paio di bretelle blu. La sposa ed io, pensavamo però che un completo così essenziale mancasse di qualcosa. Volevamo aggiungere un tocco di formalità al loro look, senza spendere troppo e senza condannare alla scomodità i piccoli.
Ed ecco da dove è nata l’idea di confezionare dei papillon a misura di bambino. La sposa ha scelto la stoffa che meglio si abbinasse allo stile della cerimonia: all’inizio avevamo preso in considerazione un satin tinta unita, più serio, ma poi abbiamo deciso di optare per un più rustico cotone a piccoli fiori liberty che restituisse un’aria più shabby e cottagecore. Peraltro il cotone sarebbe stato decisamente più facile da cucire!
Al momento della cerimonia i paggetti, con i loro piccoli papillon tutti uguali, avevano un aspetto adorabile e molto… professionale.
Ecco perchè ora sono qui a raccontarvi e spiegarvi come ho fatto a cucire una serie di papillon di misure diverse rendendoli comodi e portabili anche per i bambini più piccoli e insofferenti.
Per il “fiocco” ho usato:
un cartamodello rettangolare 11,5 cm * 7 cm (per i bambini tra i 3 e i 7 anni)
un cartamodello rettangolare 11 cm * 5,5 cm pattern (per i bebè sotto i 3 anni)
Per la “fascetta girocollo”:
Ho calcolato la misura necessaria in questo modo: ho misurato il girocollo della camicia che ogni bambino avrebbe indossato (nel caso di mio figlio 34 cm) + 7 cm che avrei usato per chiudere il fiocco e agganciarlo alla “fascetta girocollo” + 4 cm di margine per la chiusura della “fascetta” stessa.
Pertanto il mio cartamodello misurava alla fine: altezza 3,5 cm * lunghezza 45 cm.
Procediamo con la creazione del fiocco: dopo aver scelto la stoffa che vi piace di più, tagliate un rettangolo sulla base del primo cartamodello creato. (Come dicevo, il mio misurava 11,5 * 7 cm)
Piegatelo a metà, come mostrato nella foto seguente, in modo che il rovescio della stoffa sia visibile. Quindi cucite vicino al bordo solo il lato lungo, lasciando i 2 lati corti aperti. Otterrete un piccolo “tubo”. Non stiratelo!!
Dopo aver cucito il lato lungo, tagliate la stoffa in eccesso vicino ai punti. Lasciate solo il minimo indispensabile perchè la cucitura tenga.
Ora girate la stoffa in modo da portare la cucitura dentro e in modo che il lato “giusto” della stoffa sia visibile all’esterno. Inoltre, dovete ruotare un po’ il vostro “tubo” finchè la cucitura longitudinale si trovi esattamente al centro ed in alto (guardate bene la foto seguente). Ora -e solo ora- dovete stirare la stoffa.
…Ed ecco che avrete ottenuto questo tubo appiattito:
Ora piegate nuovamente la stoffa portando un lato ad allinearsi con l’altro e, con degli spilli, fermate la stoffa vicino ai bordi. Ricordate che la cucitura che abbiamo fatto precedentemente deve essere visibile al centro della stoffa, in orizzontale.
Di nuovo, cucite vicino ai bordi. Non stirate!
Rivoltate nuovamente “il tubo” portando l’interno all’esterno. In questo modo la (prima) cucitura orizzontale scomparirà completamente dalla vista, mentre la (seconda) cucitura verticale dovrà essere da voi portata al centro della stoffa, in alto. (Vedi foto sotto).
Da questo momento in poi, il nostro tubo di stoffa non deve più essere stirato. Vogliamo che resti bello rotondo e non schiacciato. Questo piccolo tubo sarà presto il nostro fiocco.
Adesso è il momento di prendere il secondo pezzo di stoffa, quello tagliato seguendo le misure della fascetta girocollo. Come vi dicevo le mie misure erano: 3,5 cm * 45 cm .
A questo punto, applicate, con il ferro da stiro, una teletta termoadesiva delle stesse dimensioni, sul lato interno della stoffa.
Separate un pezzo della misura di circa 7 cm . Lo useremo più tardi per unire il fiocco alla fascetta girocollo.
Piegate a metà entrambi i pezzi, orizzontalmente, allineando i bordi e fermateli con degli spilli.
Cuciteli entrambi solo sul lato lungo, lasciando le estremità laterali aperte. Otterrete 2 tubicini molto stretti.
Tagliate via gli eccessi di stoffa lungo le cuciture, lasciando solo pochi millimetri necessari affinchè la cucitura si tenga bene. Non stirate ancora.
Fate ruotare i tubicini finchè la cucitura orizzontale non si sposta al centro della stoffa, in alto (vedi foto sotto). Ora è tempo di stirare e rendere le 2 fascette più piatte possibili.
Giratele a “pancia in giù”, di modo da avere sopra il lato liscio e sotto il lato con la cucitura. Hanno già quasi l’aspetto finale di fascette, non trovate?
Riprendete ora il primo lavoro che avete realizzato. Schiacciate con le dita il centro del fiocco. L’ideale è creare 3 piccole onde al centro, come mostrato nella foto sotto.
Utilizzando il pezzo di fascetta più piccolo (quello che misura 7 cm) chiudete insieme il centro del fiocco e la fascetta lunga. Usate spilli o mollettine per fermare il tutto (vedi foto sotto). Questo è l’unico passaggio che richieda un po’ più di manualità perchè si tratta di unire contemporaneamente 3 pezzi senza far perdere al fiocco le sue onde, ma con un po’ di pazienza ed attenzione, il gioco sarà fatto.
Siamo molto vicini alla fine del lavoro e il tutto comincia ad avere l’aspetto di un vero papillon!
Ora bisogna dare qualche punto (necessariamente a mano) all’anellino di stoffa che chiude fermamente fiocco e fascetta. Mi raccomando: cucitelo ben stretto altrimenti il fiocco risulterà floscio e la fascetta rischierà di muoversi.
Ben stretto, ma ovviamente non “troppo” stretto: l’anellino di stoffa centrale deve essere, alla fine, un bell’anellino tondo.
Ora tagliate via l’eccesso di stoffa vicino ai punti di cucitura. State sempre attenti a non rovinare la tenuta della cucitura.
A questo punto potete vedere chiaramente come risulterà il vostro papillon. Vi piace? Però attenzione, manca ancora un passaggio importante…
Chiudete la fascetta sovrapponendo un po’ le 2 estremità e rispettando le misure del girocollo della camicia. Vi consiglio, anzi, di far indossare la camicia alla persona che indosserà questo papillon e di provare il papillon direttamente su di lui, così da capire con esattezza quale sia la circonferenza finale. Una volta terminato il lavoro, la fascetta avrà un po’ di margine per consentire una chiusura più o meno stretta ma più precisi riusciamo ad essere ora, meglio sarà.
E’ tempo ora di applicare il velcro “invisibile” (a mio avviso il velcro è la chiusura migliore per il papillon di un bambino ed è anche la chiusura più semplice da realizzare).
Ritagliate un pezzo piccolo di velcro (deve essere abbastanza da chiudere bene la fascetta, ma deve risultare più invisibile possibile, una volta chiuso).
Cucite il velcro su entrambi i lati della fascetta (io lo faccio a mano). Se necessario, è possibile rifilare poi con le forbici eventuali eccessi di stoffa dalle estremità della fascetta.
E finalmente… eccolo! Il vostro papillon fatto a mano è finito e pronto per essere indossato!
Spero che questo tutorial vi sia piaciuto. Se decidete di creare un papillon seguendo queste istruzioni, sarei felicissima di vedere le foto del vostro lavoro finito. Se vi va o se anche avete dei dubbi, lasciate un commento qui sotto.
Grazie per l’attenzione!
L'articolo Cucire un papillon per bambini (o adulti) è presente su Hanahaki.
]]>L'articolo IMAX, Pellicola, 70mm, Digitale e Laser. La tecnologia nei cinema italiani. è presente su Hanahaki.
]]>Abbiamo sentito spesso nei trailer promozionali (ad esempio per l’ultimo lavoro di Christopher Nolan “Tenet”) la frase di lancio: “girato in IMAX”.
Che cosa vuol dire IMAX?
Che differenza c’è rispetto ad una sala classica?
Innanzitutto dovremmo iniziare a distinguere tra IMAX nativo ed IMAX digitale.
Per IMAX nativo intendiamo un film girato principalmente in pellicola 70mm, scelta costosa e utilizzata ancora oggi da pochissimi registi (il già citato Nolan, ad esempio, ma anche Quentin Tarantino, che nel suo New Beverly Cinema di Los Angeles proietta ancora in pellicola 35mm), perché molto più alta qualitativamente rispetto al freddo digitale a cui siamo abituati.
DIFFERENZA TRA 35MM E 70MM
Apriamo una piccola parentesi, con lo scopo di capire meglio la differenza “di millimetri” nel formato di una pellicola.
Finché era presente la pellicola in ogni cinema e multisala, fino all’obbligo di dotarsi di proiettori digitali, i film erano proiettati principalmente in pellicola 35mm.
Il 70mm permette di trasmettere maggiore definizione rispetto al 35mm, in quanto le perforazioni sulla pellicola sono in altezza rispetto allo standard dei 35mm.
Per semplificare il significato delle perforazioni della pellicole e per capire di cosa stiamo parlando, intendiamo dei fori che sono posizionati ai lati della pellicola. Hanno lo scopo di facilitare il trasporto del film durante la proiezione ed il fissaggio della pellicola.
A seconda dello spessore della pellicola, possiamo avere diversi tipi di perforazioni che vengono anche misurate in termini di rapporto “perforazioni dimensioni telaio / spessore”. Ad esempio, per una pellicola in 35mm il rapporto è 4 perf / 35mm.
Una pellicola 70mm non IMAX è 5 perf / 70 mm.
Una pellicola IMAX è 15 perf / 70mm.
Da sottolineare il fatto che lo standard delle pellicole vede il trasporto delle immagini in verticale, mentre in IMAX è in orizzontale.
Conviene, inoltre, sottolineare che non esistono film interamente girati in IMAX, causa costi troppo elevati. Quindi ci saranno scene girate in 35mm alternate a scene girate in 65mm (che, con l’aggiunta della traccia audio, raggiungeranno i 70mm). Le scene girate in 35mm verranno adattate in post produzione ma, generalmente, in una Sala IMAX, si riconoscono scene girate tradizionalmente da quelle girate in 70mm in base alle bande nere.
Ad esempio, chi scrive ha avuto la fortuna di assistere alla proiezione de “Il Cavaliere oscuro – il ritorno” in IMAX pellicola. Le scene standard presentavano le bande nere sopra e sotto le immagini, quelle IMAX invece coprivano l’intera dimensione dello schermo.
Naturalmente per proiettare un film in IMAX pellicola non basta un proiettore 70mm, né tantomeno un proiettore digitale standard. Per questo nacquero le Sale IMAX provviste di enormi proiettori in grado di reggere il peso di queste gigantesche bobine. La Sala, anch’essa, non poteva essere la classica sala cinema. La sua struttura è decisamente più imponente, avvolgente e maestosa. La platea è quasi verticale e lo schermo in media ha una altezza di circa 16/20 metri ed una larghezza di circa 22 metri.
Abbiamo sale IMAX nativo in Italia? Proseguite alla prossima scheda per scoprirlo…
Abbiamo sale IMAX nativo in Italia? Le avevamo. Due per l’esattezza.
La prima inaugurata era a Castellaneta Marina (TA), non lontano dall’interessante parco divertimenti Felifonte, oggi chiuso per cessata attività. Questa sfortunata sala ebbe vita breve, appena 3 anni.
La seconda Sala IMAX fu quella di Riccione, presso il parco divertimenti Oltremare. Inizialmente utilizzata principalmente come attrazione per il parco, con proiezioni di documentari per gli ospiti, successivamente passò a proiettare film, da “Toy Story 3 – La grande Fuga” a “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno”.
Attualmente, probabilmente a causa degli elevati costi, la Sala non è più IMAX e ha cessato tale attività di intrattenimento. Il proiettore di questa Sala è esposto, attualmente, all’Arcadia cinema di Melzo (Mi).
Abbiamo notato, quindi, che il problema principale della tecnologia IMAX è il costo.
Ecco quindi la nascita dell’IMAX digitale.
Per ridurre drasticamente i costi di cineprese e proiettori IMAX pellicola, venne deciso di introdurre una versione digitale della tecnologia. Mentre prima era necessaria una costruzione da zero per le strutture che avrebbero ospitato la tecnologia IMAX, con la soluzione Digitale basta prevalentemente la riconversione di una sala standard già esistente, la dotazione di una coppia di proiettori IMAX 2K o 4K che funzioneranno simultaneamente per proiettare immagini più luminose rispetto alle sale standard ed una ricodifica all’impianto audio. Purtroppo però, come è facile aspettarsi, questa soluzione è decisamente meno dettagliata della proiezione in pellicola.
Esistono Sale IMAX Digitale in Italia? Proseguiamo la lettura per scoprirlo…
Sì. La prima aperta in Italia si trova all’Uci Cinemas di Pioltello (MI). La sala ha una coppia di proiettori 2K con audio ad allineamento laser.
La seconda è stata inaugurata presso il multisala di Sesto San Giovanni (MI) Skyline (adesso passato sotto la gestione di Notorious Cinema). La sala è dotata di una coppia di proiettori 4K.
La terza Sala IMAX Digitale è stata aperta presso il multisala Happy MaxiCinema ad Afragola (NA). La Sala è dotata di due proiettori digitali IMAX.
La quarta Sala inaugurata presso Uci Cinemas Orio al Serio, rispetto alle precedenti tre, presenta due importanti differenze. La prima è che la Sala è stata progettata in fase di costruzione, quindi non è stata convertita una sala precedentemente esistente. La seconda caratteristica è che è la prima Sala IMAX dotata di due proiettori laser 4K.
La proiezione laser è ideata per schermi di grandezza maggiore, infatti lo schermo della Sala IMAX di Orio misura 482 metri quadrati, questo lo rende lo schermo IMAX più grande in Italia (sottolineiamo schermo IMAX, perché proseguendo scopriremo che esiste uno schermo ancora più grande nella nostra penisola).
La quinta Sala IMAX Digitale è nata in Toscana, presso l’Uci Cinemas di Campi Bisenzio (FI).
La sesta, ed ultima al momento, Sala IMAX Digitale è stata inaugurata, finalmente, nella Capitale presso l’Uci Cinemas Porta di Roma.
Adesso che, a grandi linee, abbiamo capito la differenza tra IMAX nativo (pellicola) ed IMAX digitale, torniamo alla domanda che ci ponevamo ad inizio articolo ossia: la dicitura “girato in IMAX”, sbandierata negli spot e nei trailer, indica che il film è girato in pellicola IMAX o in IMAX Digitale?
Sono possibili entrambe le soluzioni (ma mai entrambe per lo stesso film). Ci sono registi che han già girato in IMAX Digitale (ad esempio Michael Bay) e registi che non cambieranno mai idea nonostante i costi e che continueranno per la via analogica.
Per il caso di “Tenet”, i trailer si limitavano a dire che il film era stato girato in IMAX senza specificare. In quel caso si trattava di pellicola IMAX.
E come vedere al meglio i film girati in IMAX nativo (pellicola), visto che le Sale IMAX presenti sul nostro territorio sono digitali?
Per rispondere a questa domanda apriremo un nuovo capitolo.
Continuate la lettura e scopriremo proiezioni in pellicola 70mm fantastiche e dove trovarle…
L’alternativa al digitale, quando si vuole vedere il film in pellicola come avrebbe desiderato il suo regista, esiste.
Infatti poche sale al mondo hanno ancora la possibilità di proiettare film nel formato 70mm (non IMAX).
In Italia ci sono alcune sale in grado di proiettare i film in 70mm, quando si presenta l’occasione di un film girato con questo standard, ad esempio la Cineteca di Bologna o l’Arcadia multiplex di Melzo, apriremo una parentesi riguardo questo cinema, che per molti appassionati è IL Cinema.
E’ il 31 Maggio 1997, viene inaugurata a Melzo una multisala da 5 schermi (anche se all’inaugurazione solo 4 sale erano operative: Terra, Aria, Acqua, Fuoco. Il pezzo forte, la Sala Energia, verrà inaugurata solo successivamente) destinata ad essere considerata il tempio della settima arte, Arcadia.
Sin da subito questa struttura si è distinta per la comodità delle poltrone, l’illuminazione soffusa, l’effetto ovattato delle sale in grado di isolare lo spettatore dal mondo reale, ma soprattutto, la qualità dell’esperienza globale.
Costruito secondo gli standard di George Lucas, detentore del marchio THX, tutta la struttura, alla nascita, era certificata sulla base di tale standard audio.
Da quel momento Arcadia ha sempre cavalcato l’onda tecnologica, evoluzione dopo evoluzione, senza sedersi e vivere semplicemente della propria fama creatasi.
Oggi Arcadia vanta la miglior Sala d’Europa, la Sala Energia, con proiettori laser 4K, lo schermo (non IMAX) più grande del Continente, con 30metri di lunghezza e quasi 20 di altezza, con la configurazione Dolby Atmos più grande al mondo ed è ufficialmente utilizzata dalla stessa Dolby per testare i propri prodotti dall’America.
E’ un punto di riferimento per molti cinefili, perché la famiglia Fumagalli – proprietaria della multisala – in primis ama e rispetta la Settima Arte, e la struttura è dotata, nonostante l’avvento del digitale, ancora di due proiettori 70mm (Sala Energia e Sala Fuoco) ed uno in 35mm (Sala Aria).
Non è raro che la struttura riproponga occasionalmente spettacoli speciali in 70MM di film come “2001: Odissea nello spazio” o “Interstellar”.
Successivamente sono nate altre sedi Arcadia tutte qualitativamente comunque elevate -anche se nessuna ha potuto rivaleggiare con la Sala Energia-, dotate di proiettori standard sia 2K che 4K, ad Erbusco (BS) e Bellinzago Lombardo (MI).
E’, inoltre, in costruzione la quarta sede Arcadia a Stezzano (BG) che ospiterà, secondo i rumors, la prima sala Dolby Cinema in Italia. Il Dolby Cinema richiede infatti speciali standard audio e video nonchè della Sala stessa.
Per gli amanti dei momenti nostalgia vogliamo ricordare la Sala Megatheatre di Vimercate.
Nel 2001, a Vimercate (MB), aprì il multisala Warner Village Torribianche. Su 16 Sale, all’inaugurazione, ne aprirono 15.
La numero 16, la Sala Megatheatre, aprì qualche mese dopo.
Da subito si scatenò una sorta di guerra tra i cinefili, tra chi preferiva questa e chi la Sala Energia.
Il suo schermo misura 16 metri di altezza e circa 22 di lunghezza.
Alla sua apertura poteva vantare di sistema di proiezione 35mm standard, 70mm e Large Format. All’epoca erano diverse le proiezioni speciali in questo formato, ad esempio il film d’animazione “La bella e la bestia”.
La struttura della sala, quasi verticale, vantava – giusto per viziarsi un po’ – le ultime 5 file, denominate “File Vip” da cui si aveva accesso dall’esclusivo Vip Bar, posto al piano superiore. Questi posti Vip hanno la caratteristica di avere un tavolino ogni 2 poltrone.
Da quando la Warner Village è diventataThe Space Cinema (insieme al circuito Medusa) la Sala Megatheatre ha cambiato nome semplicemente in Sala 16. I posti dotati di tavolino sono rimasti, ma il Vip Bar ha chiuso e oggi si accede semplicemente dagli ingressi bassi della sala.
I proiettori in 35mm e 70mm non sono più presenti. I film vengono proiettati nel classico formato digitale 2K. Tuttavia, il colpo d’occhio della sala ha ancora qualcosa da dire. Entrandoci adesso, per chi ha vissuto i suoi anni di gloria, ciò che si prova è prevalentemente nostalgia mista a dispiacere che una sala con tanto potenziale sia stata “sprecata” con dotazioni standard.
Mentre i cinema italiani devono continuare la loro chiusura forzata secondo le norme vigenti anti-Covid, sicuramente milioni di spettatori e cinefili sentiranno la mancanza di accomodarsi in sala e viaggiare nell’universo della celluloide.
Vogliamo concludere con questo articolo, dicendo che le sale in Italia sono tante, la tecnologia è varia e molti multisala sono dotati di proiettori 4K e audio Dolby Atmos. Dedicare spazio a tutte sarebbe stata una impresa titanica, quindi abbiam preferito dedicarci principalmente a quelle caratteristiche più di nicchia che possiamo trovare nel nostro panorama.
Il desiderio e l’augurio che vorremmo dedicare agli esercenti ed agli artisti che, da sempre, ci hanno regalato serate di intrattenimento di qualità è la speranza di tornare a vivere le emozioni del grande schermo, sul grande schermo.
La comodità delle piattaforme streaming non potrà mai sostituire quello che uno spettatore prova quando le luci in sala si spengono ed inizia lo spettacolo.
“Avete sentito?
Quello era il rumore del proiettore che faceva girare la pellicola.
Beh, ora la pellicola la stanno sostituendo e di queste macchine non ce ne saranno più, roba da museo. Ma è giusto così, l’arte deve pur evolversi, l’importante è che non cambi il risultato e che i titoli di coda continuino a scorrere, sempre, per un film di cui non si vedrà mai la fine.
Perché laddove finiscono i titoli di coda iniziano i vostri sogni, le vostre storie.
Qualcuno disse che i film devono riempire lo schermo e le poltrone, impresa ardua. Ma a noi le cose facili non sono mai piaciute.
In quanto a Cinecittà, che resti sempre lì dov’è, carica di mondi da esplorare e di sogni da raccontare.
Come diceva Fellini <<il vuoto cosmico prima del Big Bang>>.
E allora…buona visione.”
Con questo monologo tratto dallo spettacolo “Come ti faccio un film” di Cinecittàworld, parco a tema cinematografico vicino Roma, che si svolgeva sulle note della struggente Staràlfur dei Sigur Rós, con sequenze di immagini che spaziavano da Sophia Loren ad Anna Magnani, da Vittorio De Sica a Totò,
Ci auguriamo di poter tornare il prima possibile in Sala e goderci tutti insieme la magia del Grande Schermo.
L'articolo IMAX, Pellicola, 70mm, Digitale e Laser. La tecnologia nei cinema italiani. è presente su Hanahaki.
]]>L'articolo The Watch: GdR e identità di genere (recensione) è presente su Hanahaki.
]]>Tra gli indubbi meriti di questo progetto c’è quello di aver introdotto coraggiosamente il tema dell’identità di genere all’interno dei Role-Playing Game, in piena continuità con l’operato dei numerosi movimenti che in questi ultimi anni stanno cercando di riaffermare tali tematiche all’interno di questo genere ludico, scardinando il contesto “ostile” rappresentato da comunità spesso estremamente chiuse nei confronti di tali soggettività politico/sociali. Una realtà complessa e difficile da analizzare, che negli ultimi anni è stata affrontata con grande efficacia da game activist italiani e internazionali come Marta Palvarini (curatrice del bellissimo saggio Fuori dal Dungeon. Genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale, pubblicato nel gennaio 2020 da Asterisco Edizioni), Avery Alder, Jaakko Stenros, Jon Peteron, Katherine Cross, Tanja Sihvonen e molti altri.
The Watch è un gioco di ruolo basato sul sistema Powered by the Apocalypse (PbtA), il noto “motore” creato da Meguey Baker e Vincent Baker (l’autore del famosissimo Cani nella Vigna) per il loro gioco Apocalypse World del 2010 e utilizzato da una gran quantità di RPG usciti negli ultimi anni, tra cui Monsterhearts, Dungeon World e molti altri.
Per chi non lo conoscesse, si tratta di un sistema che prevede una meccanica incentrata sull’esecuzione di “mosse”, ovvero un set predeterminato di azioni fortemente tematiche che i personaggi possono compiere per svolgere azioni e portare avanti la trama; le “mosse” a disposizione dipendono sia dall’ambientazione che dalle caratteristiche di ciascun PG, consentendo così di immedesimarsi rapidamente nel setting, ovvero nel contesto narrativo del gioco. Ovviamente ciascuna mossa può riuscire o meno a seconda di un tiro di dadi, solitamente a 6 facce, i cui risultati (calcolati in vari modi a seconda del sistema) possono determinare un successo completo, un successo parziale (con conseguenze potenzialmente negative) o un fallimento.
Il sistema riesce a integrare in modo efficace aspetti narrativi e meccanici, garantendo così un’esperienza di gioco soddisfacente per tutte le principali tipologie e sensibilità di giocatori: dai fan del “narrativismo” alla The Forge / Big Model Theory (che lo stesso Vincent Baker ha contribuito a innovare e, soprattutto, “rinnovare”) fino agli appassionati di tattiche, regole e procedure e quindi più affini a sistemi come Rolemaster e Pathfinder; il tutto, ovviamente, fermo restando che si tratta di un sistema nato per venire incontro i gusti dei giocatori che mettono al primo posto gli aspetti interpretativi legati alla costruzione della scena.
Il successo del Powered by the Apocalypse all’interno delle community di giocatori di ruolo è in ogni caso indiscutibile, come ampiamente testimoniato dall’enorme quantità di Role-Playing Game usciti negli ultimi anni che hanno scelto di adottare questo sistema; The Watch non fa eccezione, anche se il suo merito principale non è da tanto ricercare nelle meccaniche del regolamento quanto nelle particolarità dell’ambientazione e della premessa narrativa che innesca le dinamiche di gioco.
The Watch propone una classica ambientazione light-fantasy di stampo medievale che ricorda per certi aspetti un misto tra la Scozia e l’Islanda di quel medesimo periodo storico: la società è organizzata in vari clan, ciascuno con le proprie caratteristiche, rivalità e rancori, ma che condividono un sistema di valori grossomodo comune.
I dettagli relativi all’ambientazione sono spiegati nella sezione iniziale del manuale, chiamata “Before the Shadow”: nome non casuale, visto che sarà proprio l’arrivo della “Shadow” a cambiare (tragicamente) le carte in tavola e a porre in essere i presupposti del gioco.
Per non rivelare troppi particolari ci limiteremo a dire che la “Shadow” (Ombra) è una forza misteriosa che a un certo punto invade il mondo e aggredisce le popolazioni dei clan, invadendo le menti e corrompendo lentamente l’animo delle persone, fino a trasformarle in mostri: la caratteristica peculiare dell’Ombra è che i suoi poteri agiscono in modo considerevolmente più forte e deleterio sugli individui che si identificano come maschi, seguendo però una dinamica basata sull’identità, non sulla genetica: questo aspetto è molto importante per il tema del gioco e il regolamento non manca di chiarirlo in modo esplicito, spiegando che l’Ombra, nelle intenzioni degli autori, non è altro che una rappresentazione simbolica degli effetti negativi della mascolinità tossica sulla società.
Per contrastare gli effetti nefasti dell’Ombra i singoli clan si trovano costretti a superare le proprie diversità e formare un fronte comune, una sorta di esercito unificato al quale ciascuno di loro contribuisce inviando le forze migliori: come si può facilmente intuire, questa forza di resistenza – a cui viene dato il nome di The Watch – è formata in modo prevalente da persone che si identificano nel genere femminile, a cui viene affidato il compito di dirigere le operazioni: gli uomini sono anch’essi presenti, ma vengono relegati a ruoli assolutamente marginali e tenuti lontani dalle prime linee – nonché da qualsiasi incarico di fiducia – poiché rischierebbero di essere corrotti e di mettere così in pericolo la comunità.
L’aspetto che mi ha maggiormente colpito (e che ritengo personalmente geniale) è la cura con cui il manuale affronta, con una metafora estremamente efficace, il problema degli effetti nefasti della mascolinità tossica all’interno della società: al tempo stesso, però, il tema è trattato in modo estremamente maturo, superando la tentazione di cadere nelle principali ingenuità con cui la fiction contemporanea si ostina ad affrontare il problema:
Si tratta di due modalità narrative che non a caso affondano le loro radici nella narrativa classica, quindi tutt’altro che originali: nonostante questo, negli ultimi anni abbiamo assistito a un incremento massiccio del loro utilizzo, quasi certamente spiegabile con la progressiva importanza che è stata (finalmente!) attribuita alle questioni di genere all’interno della fiction tradizionale. Sfortunatamente, nella maggior parte dei casi si tratta di “scorciatoie” che gli autori prendono per fornire una soluzione rapida e indolore a un problema molto più complesso, che peraltro in molti casi sortisce l’effetto opposto: anzi, non di rado la sessualizzazione a cui vengono spesso sottoposti i personaggi femminili rappresentati, nonché la loro inevitabile “riduzione” ad archetipi ad uso e consumo anche dello spettatore maschio tradizionale (la Moe, l’Ingenua, la Goffa ma Adorabile, la Tsundere, etc.) fanno pensare che spesso la “cura”, per così dire, sia peggiore del male, e che questa volontà di voler esibire la componente “estetica” della femminilità sia del tutto funzionale al mantenimento dello status quo.
Questo risulta particolarmente evidente nelle operedove la presenza maschile viene interamente soppressa, paradosso narrativo particolamente subdolo poiché viene non di rado apprezzato ed applaudito anche da chi chiede più uguaglianza di genere: in realtà il female-only cast è spesso la consacrazione definitiva della mascolinità, che viene rimossa dalle scene solo per essere gratificata ancora di più (e ancora meglio) al di là della quarta parete, cosa che risulta particolarmente evidente quando le “protagoniste” (o pin-up?) si trovano curiosamente a condividere la stessa corporatura – magari con piccole differenze, ma sempre potenzialmente desiderabile secondo i canoni maschili maggiormente in voga.
A ben vedere, The Watch è interessante proprio perché si discosta nettamente da queste semplificazioni, proponendo un approccio decisamente più complesso: il gioco non spinge a caratterizzare le donne al maschile, né a renderle un harem di stereotipi ad uso e consumo del giocatore / spettatore maschio. Questa complessità riguarda anche le modalità con cui viene spiegata l’ambientazione e le premesse su cui questa si basa, ovvero l’arrivo dell’Ombra e le conseguenze diversamente devastanti che questa ha sul genere maschile, sul genere femminile e sul tessuto sociale: il senso di quanto viene rappresentato non è che “gli uomini non sono cattivi”, ma che le donne – a cui è affidata la responsabilità della lotta per proteggere la società – non possono permettersi di ritenere che alcuni di loro siano “buoni” fino a quando l’Ombra non viene affrontata e sconfitta.
Il manuale chiarisce peraltro come il genere femminile non sia immune all’Ombra: semplicemente, le persone che si identificano come maschi hanno enormi difficoltà a resistere. Una intuizione estremamente suggestiva che ricorda per certi aspetti la società descritta all’interno del manga Claymore di Norihiro Yagi, dove pure troviamo un esercito formato da sole donne (le Claymores, appunto) stante l’incapacità degli uomini di resistere agli effetti nefasti del “sangue” degli Yoma, necessario per poter combattere gli Yoma stessi.A differenza di Claymore, che pur partendo da ottime premesse non riesce ad essere particolarmente incisivo sul tema dell’identità di genere, e anzi finisce per cadere in parte vittima dell’inevitabile “effetto pin-up” delle protagoniste descritto poche righe fa, ritengo che gli autori di The Watch abbiano fatto davvero un ottimo lavoro sotto questo punto di vista. Per questo motivo consiglio vivamente di approfondirlo a chiunque sia interessat* da queste tematiche, anche perché si presta ottimamente ad essere giocato online.
Prima di concludere questa recensione non posso esimermi dal menzionare gli ottimi disegni che accompagnano la versione PDF del manuale, realizzati dalla bravissima Claudia Cangini e che aiutano non poco ad entrare nelle cupe e desolate atmosfere del freddo mondo descritto.
Se riuscite a provarlo, fatemi sapere cosa ne pensate!
Se vi interessa saperne di più su The Watch, ecco un elenco di utili riferimenti online:
Alla prossima!
L'articolo The Watch: GdR e identità di genere (recensione) è presente su Hanahaki.
]]>L'articolo Hello Sandybell – Testo e Accordi per Chitarra è presente su Hanahaki.
]]>La sigla italiana, uscita insieme alla prima trasmissione dell’anime da parte della RAI nel 1983, è stata scritta da Maria Letizia Amoroso, con musica di Corrado Castellari e arrangiamento di Maurizio Bassi, ed è interpretata da Steffi e Le Mele Verdi. Per maggiori informazioni rimandiamo alla pagina su Wikipedia.
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L'articolo Hello Sandybell – Testo e Accordi per Chitarra è presente su Hanahaki.
]]>L'articolo Trick or Treat: The Legend of the XII Saints è presente su Hanahaki.
]]>Si tratta del secondo album consecutivo a tema anime, a due anni di distanza dal progetto Re-Animated (2018) con il quale il talentuoso gruppo di Modena aveva ottenuto un discreto successo: stavolta però non si tratta di un album di cover di sigle italiane ma di 14 brani originali, 12 dei quali dedicati a ciascuno dei Gold Saints (i Cavalieri d’Oro). La fonte di ispirazione è dunque l’iconica saga delle dodici case, che corrisponde al momento centrale della storia narrata all’interno della serie classica realizzata dalla Toei Animation e impreziosita dal memorabile character design di Shingo Araki.
L’ambizioso progetto ha preso piede nel corso del 2019 con una campagna di crowdfunding, durante la quale il gruppo si è impegnato a pubblicare una nuova canzone ogni mese sul proprio canale YouTube, in concomitanza con il cambio di guardia del segno zodiacale corrente. Un’idea (e una strategia di vendita) ambiziosa e originale che si è conclusa all’inizio del 2020 con la pubblicazione dell’ultima traccia online e che da pochi giorni (aprile 2020) ha ufficialmente preso vita sotto forma di album pubblicato da Scarlet Records.
Il concept inizia con Ave Athena, una intro epica e maestosa (anche se non particolarmente ispirata) che ricorda il sipario iniziale degli storici album degli Helloween e dei Gamma Ray. Dopo circa un minuto parte Aries: Stardust Revolution, un apripista melodico che introduce la prima delle dodici case omaggiando la principale caratteristica di Mu dell’Ariete: riparare le armature. Segue Taurus: Great Horn, il cui ritornello sostenuto e accattivante introduce quella che a nostro avviso è forse la canzone più riuscita dell’intero album: Gemini: Another Dimension, dove Alessandro Conti è accompagnato dalla special guest Yannis Papadopoulos, cantante dei finlandesi Beast in Black, alla cui voce squillante è affidato il compito di interpretare il secondo gemello.
Cancer: Underworld Wave è il brano dedicato alla quarta casa e forse uno dei meno convincenti, complice l’utilizzo forse eccessivo delle tastiere e un’atmosfera che si distanzia dalle sonorità tipiche del power metal strizzando l’occhio a una melodia più dichiaratamente pop.
Si passa quindi a Leo: Lightning Plasma, pezzo che musicalmente non sembra particolarmente ispirato ma che vanta un testo molto interessante che descrive bene i dubbi, i rimorsi e la tristezza di un personaggio complesso come Aioria del Leone. Segue Virgo: Tenbu Horin, brano dal ritmo trascinante e contenente quello che forse è l’assolo più convincente di tutto il disco. Arriva poi Libra: One Hundred Dragons Force, che prevedibilmente contiene sonorità orientaleggianti enfatizzati da un interessante arrangiamento di violini.
E’ dunque la volta di Scorpio: Scarlet Needle, altro pezzo forte dell’album grazie a un ritmo incalzante e a una batteria particolarmente potente e ispirata. Segue Sagittarius: Golden Arrow, una power-ballad retta da chitarre acustiche e tastiere che narra la storia di Aiolos, uno dei personaggi secondari più tragici e amati dell’intera saga.
Il viaggio prosegue con Capricorn: Excalibur e Aquarius: Diamond Dust, due canzoni che non brillano molto per originalità ma che riescono comunque a riportare dignitosamente alla memoria grandi classici del genere power; il cammino attraverso le dodici case si conclude con Pisces: Bloody Rose, seconda ballad dell’album, che però non convince del tutto e risulta decisamente meno ispirata rispetto alla precedente. L’album si chiude con Last Hour (The Redemption), una sorta di outro non particolarmente memorabile che scivola via sulle note di una chitarra acustica dedicate alla Dea Athena.
Al di là dell’aspetto prettamente “nostalgico”, che non mancherà di attirare i fan della saga, i brani sono nel complesso di buona qualità e risultano ottimamente suonati e interpretati. E’ tuttavia bene precisare che si tratta di un gruppo che nasce come cover band degli Helloween ed è rimasto fedele al genere Power Metal, le cui caratteristiche principali – chitarre dalle armonie acute, power chords, voce potente e squillante, ritmi veloci e sostenuti, stile epico – sono assolutamente predominanti in tutte le canzoni di questo nuovo lavoro: questo approccio, che si riscontra sia nella conformazione dei brani che nelle modalità esecutive, potrebbe deludere sia gli ascoltatori non amanti del metal che quelli che, pur apprezzando il genere, sono alla ricerca di innovazioni o sperimentazioni particolari. Del resto si tratta di un album evidentemente rivolto ai nostalgici di un certo tipo di atmosfere power/epic/speed metal, che avranno probabilmente modo di apprezzare la voce del bravo cantante Alessandro Conti, il songwriting di alcune delle canzoni più ispirate e l’esecuzione di buon livello.
Se poi avete la fortuna di essere anche degli appassionati dell’anime, beh… Correte ad ascoltarlo! Non ve ne pentirete.
L'articolo Trick or Treat: The Legend of the XII Saints è presente su Hanahaki.
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